La funzione e la dignità del dolore
- Sedalia Palatresi
- 23 nov 2016
- Tempo di lettura: 3 min

Qualche giorno fa ad una coppia di cari amici e' capitata una brutta esperienza. Una di quelle esperienze che un po' ti segnano la vita, che smuovono dentro tante cose, che ti possono far iniziare a guardarti dentro in modo diverso. Quando io e mio marito abbiamo saputo la notizia ci siamo guardati e, intristiti, ci siamo chiesti cosa potevamo fare sul momento per loro. E abbiamo scelto di fare silenzio per qualche giorno, di dare tempo a noi ma soprattutto a loro. Tanto, ci siamo detti, lo sanno che vogliamo loro bene e sanno altrettanto bene che possono rivolgersi a noi quando vogliono. Sono passati dei giorni e quando mi è sembrato il momento giusto ho chiamato la mia amica. Le ho detto subito che mi dispiaceva molto per quello che era capitato e ho cercato di mettermi in ascolto di quello che lei voleva dirmi, di quello che aveva voglia di tirare fuori, di condividere con me. Ebbene, sono rimasta molto molto colpita dalla prima cosa che si è sentita di "buttare fuori". Prima di raccontarmi la sua dolorosa esperienza mi ha detto: "Ma lo sai cosa mi ha fatto tanto male di tutta questa storia a parte il fatto in se'? Sono rimasta male che tutti si sono precipitati a dirmi che in fondo non è stata una cosa così grave, che nella vita ci sono sempre altre possibilità, che sono in gamba, giovane e forte e il mio turno arriverà presto. Ma io ora sto male, perché adesso devo per forza sforzarmi di vedere il bicchiere mezzo pieno? Lo so che avrò altre opportunità, ma ora dentro di me ci sono delusione e dolore. " Queste parole hanno scatenato nella mia testa un turbine di pensieri. Eh si...lei ha proprio il diritto di vivere il suo dolore. Anzi, forse ne ha il dovere se vuole che altre opportunità si affaccino davvero nella sua vita. E avrebbe il diritto di poter condividere il suo stare male, di non sentirsi sola in questo. Ma spesso,per chi gravita intorno a chi vive brutte esperienze, dolori, lutti, e' più facile rassicurare, deviare, minimizzare che prendersi addosso per un momento un pezzetto di quel dolore, di quella perdita, di quella delusione. Prendersi cura del dolore altrui può voler dire prendersi cura del proprio dolore. Vuol dire guardarsi dentro, guardare nei buchi neri, nelle mancanze, per diventare solidali con il vuoto altrui, con l'irrequietezza del dolore, proprio e degli altri. Ma tutto questo (permettetemi di dire soprattutto in questa nostra epoca del mordi e fuggi e della soddisfazione istantanea dei bisogni), e' difficile. Richiede empatia, predisposizione al cambiamento, mettersi in contatto con la parte più intima, e forse più scura, che è dentro di noi. Ma nell' epoca della superficie, del tutto e subito, del galleggiare tra velocità e suggestioni, questo richiede uno sforzo grande, che non tutti sono disposti a fare. Guardare in faccia la sofferenza vuol dire accettare che ci sono nella nostra vita esperienze di vuoto, di silenzio, di attesa. Questi momenti sono estremamente fertili perché possiamo cogliere l' occasione di conoscere una nuova parte di noi,di integrare nella nostra vita nuovi punti di vista. Quando neghiamo il dolore, o quando ci opponiamo strenuamente alla sofferenza siamo al contrario sterili, rendiamo il dolore stesso più forte, lo perpetuiamo. E allora, per sopravvivere, corriamo, non lo guardiamo in faccia, facciamo mille deviazioni per non incontrarlo, ma prima o poi lo incrociamo e torna a essere la dimensione preponderante della nostra vita. Per rendere " vivibile" il dolore ci dobbiamo dialogare e dobbiamo permettergli di esistere. Evitiamo così la sensazione della lotta senza senso contro il dolore, non dobbiamo sforzarci in una resistenza a tutto campo. Riflettendo su questi miei pensieri mi è venuta in testa un' associazione di idee che li per li è sembrata curiosa anche a me ma che poi tanto assurda, per me, non è. Mi spiego. Ho letto su un social un post di un personaggio abbastanza conosciuto che si scagliava contro " quelli dell' apericena e dei risvoltini" mettendo la foto di un cestino al di fuori di un locale pieno zeppo di rifiuti di cibo. Questo personaggio chiede, a modo suo, a chi gira vorticosamente tra locali, facendo selfie, non fermandosi mai, di rallentare, guardare in faccia la solitudine da cui fuggono, e starsene a casa a cucinare per gli amici, invitarli e parlarci davvero. Io non ho nulla contro le apericene o i risvoltini, ma questo vivere a tutta velocità a volte mi sembra appunto un modo per nascondersi dal dubbio, dal dolore, dall' incertezza della vita. E finire un giorno a non riuscire più a guardare un amico in difficoltà e poter farlo sentire meno solo nel suo dolore...tutti intenti come siamo a mascherare il nostro.
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